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Giusto 30 anni fa è venuto a morte Gino Germani, il teorico della modernizzazione che mi è stato brevemente amico. Germani è stato uno scienziato sociale storico italiano costretto ad emigrare in Argentina negli anni Trenta, dopo aver passato mesi in carcere sotto il regime fascista, e tornato inutilmente in Italia negli anni Settanta. Perché “inutilmente”? Perché non potè realizzare in l’Italia ciò aveva fatto per l’America Latina intera: una grande ricognizione della storia e della struttura delle classi sociali. Le istituzioni culturali della sinistra italiana che gli rifiutarono il loro concorso (l’Istituto Gramsci prima fra tutte) avevano cose più importanti da fare.
Cosa abbiamo perduto ignorando quella generosa offerta di “organicità”? Rileggiamo un suo appunto di otto paginette “sullo sviluppo dei ceti medi nella storia del capitalismo, italiano in particolare”, posto ad apertura di un libro a più voci pubblicato da Liguori: Mutamento e classi sociali in Italia, 1981.
Germani inizia osservando che lo sviluppo del capitalismo ha prodotto un continuo accrescimento delle classi medie, che manifestano dal canto loro una persistente “ambiguità” nei confronti delle classi dominanti e delle classi strumentali. Nella fase del “capitalismo di transizione” (fine secolo XIX > fine seconda guerra mondiale) esplode la prima grande crisi delle classi medie, minacciate “dall’alto, da una crescente concentrazione di potere economico e politico, e, dal basso, dai progressi compiuti dalla classe operaia organizzata attraverso i sindacati e i partiti di massa”. In quella fase le classi dominanti dei paesi caratterizzati da una “composizione demografica irrazionale” (Gramsci, Quaderni) adottarono, ai fini del controllo di questo aspetto della crisi organica, una soluzione autoritaria e regressiva: il fascimo e il nazismo.
Nella fase capitalistica successiva, “neo-capitalistica o della società dei consumi”, che giunge ai primi anni Settanta, si realizza secondo Germani una “capacità da parte del sistema sociale globale di dare vita pressoché ininterrottamente ad un processo di innovazione tecnologica e di incremento produttivo”. Capacità effettuale che però viene illusoriamente moltiplicata da una tendenza ideologica a rendere “meno visibile” il sistema della stratificazione, che “tende ora ad essere percepito come un continuum più che come una gerarchia di strati ben distanziati e differenziati”. Tale sviluppo e tale “immagine” dello sviluppo conferiscono comunque “stabilità” al complesso delle classi medie. Una importante conseguenza: “la diffusione di ideologie e di atteggiamenti più egualitari”. Insomma, il Sessantotto come ‘rivoluzione delle classi medie’ guidata da una ideologia corrispondente alla favorevole congiuntura economica.
Dal 1973, nota infine Germani, il sistema sociale entra di nuovo in crisi, in quanto “restano fuori del mercato del lavoro non solo una parte della classe operaia ma anche una parte della classe media”. Le classi medie ricadono in una condizione di incertezza e di eteronomia. Siamo dunque nel pieno della seconda grande crisi delle classi medie. Ancora oggi. Servirebbero grandi ricerche storico sociali (“sentire-comprendere-capire per trasformare”). Ma siamo impicciati con tante cose più importanti da fare.
(Alias, 7 marzo 2009)
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