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Da: Pasquale Misuraca
Data: mercoledì 4 aprile 2001 7.56
A: Giovanni Spagnoletti
Oggetto: detto, fatto
(e di seguito a Paolo D’Agostini, Nefeli Misuraca, Serafino Murri e Federica De Paolis).
PERCHE’ HO CHIESTO A GIOVANNI SPAGNOLETTI [Direttore della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro] DI NON PROIETTARE I MIEI AUDIOVIDEO SUL GRANDE SCHERMO di Pasquale Misuraca Dice Giovanni Spagnoletti che la proiezione di video su grande schermo è ormai di buona resa, e aggiunge che questo genere di proiezione gratifica gli autori. Rispondo che preferisco il piccolo schermo, per ragioni teoriche, abbozzo il ragionamento e lui: “Scrivimi una cartella”. Obbedisco.
Il cinema sta finendo, secondo me. Voglio dire quella forma storica dell’arte audiovisiva che suppone la pellicola, la grande sala, il grande schermo, il pubblico di massa, e il circo: la cinepresa e l’operatore, le luci e il direttore della fotografia, il carrello e il macchinista, la scenografia e lo scenografo, i costumi e il costumista, l’attrice e il truccatore e via enumerando l’apparato che serviva per realizzarlo e che si frapponeva fino a ieri necessariamente tra l’astante e l’evento, lo spettatore e l’opera. Sta finendo perché sta finendo la forma storica di società che l’ha fatto nascere e vivere: la società dei partiti politici, dei sindacati operai e contadini, degli stati nazionali, degli uomini-massa. Dalle sue ceneri (ancora calde e piene di tizzoni ardenti) sta nascendo un’altra società, la quale si sta costruendo una diversa forma storica dell’audiovisivo, il prodotto principe del quale è appunto l’audiovideo, che vado a presentare.
Naturalmente parlo dei miei audiovideo, perché li conosco meglio degli altri (avendoli fatti) e perché un autore sotto sotto teorizza sempre la sua opera (ma questa teorizzazione, qualche volta, può assumere un valore più generale, no?) Allora, lasciamo da parte “Leonardo Sciascia Autoritratto” e “Vittorio De Sica Autoritratto”, due video di montaggio che ho costruito per la televisione italiana (Rai Educational) con soli materiali d’archivio, e prendiamo in esame “La Vigilia” un audiovideo che ho girato (ho girato?) a Santiago de Chile e montato (ho montato?) a Roma, in questo inizio del 2001.
Tra lo spettatore e l’opera non c’è più il circo: il protagonista accende la telecamera e registra e si registra. Una soggettiva finalmente diretta e giustificata. E’ nata l’opera audiovideo: prima persona singolare del presente indicativo. Io audio e video per te, singolo soggetto spettatore. Un realismo diverso dal Nuovo e Vero Realismo, nel quale si vedeva e si sentiva attraverso un testimone invisibile che supponeva però il circo, e diverso dal Nuovo e Vago Realismo, con la sua ostentazione del circo in campo e del montaggio visibile.
Ma questa dell’audiovideo non è soltanto una nuova possibilità tecnica, una nuova condizione materiale, la quale però è fondamentale per la buona ragione che la condizione è sostanziale all’iniziativa. Per dirla con Karl Marx (vi ricordate della sua meravigliosa Prefazione a Per la Critica dell’Economia Politica?): “L’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose da vicino, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.” E’ anche, questa dell’audiovideo, una nuova effettualità linguistica, da praticare e da teorizzare. Dalle condizioni materiali ormai date alle iniziative pratiche e teoriche possibili e per ciò necessarie.
Dunque, parlando di proiezione (lo spazio della cartella sta finendo) la visione e l’ascolto delle opere audiovideo, si dovrebbe realizzare, per amore di chiarezza e con l’arte della conseguenza, attraverso un registratore e un televisore (“Il di più viene dal Maligno”). Di fronte al quale stiano un pugno di spettatori, che si conoscono e si riconoscono, un pugno di tu.
[dal Catalogo della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro 2001]
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Da: Nefeli Misuraca
Data: mercoledì 4 aprile 2001 16.50
A: Pasquale Misuraca
Oggetto: Re: per il Catalogo della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro
Caro papa', mi e' venuta in mente una cosa mentre leggevo la tua "cartella", solo video in questo caso. E l'arte? Sembra che tu distingua per il mezzo audiovisivo due possibilita': l'una, quella passata, della rappresentazione roboante e, in fondo, della mistificazione; l'altra, quella nascente, tutta privata, nel farsi e nel fruirsi. Ma, tra la rappresentazione e la comunicazione, privata, privatissima, dove e' finita l'arte? L'arte, mi pare, e' anche comunicazione, certo, ma c'e' dell'altro: n'est pas? "Siamo l'uno per l'altro un teatro abbastanza grande", diceva Epicuro dalla sua grotta; ma mi pare che si riferisse alla comunicazione e non all'arte. Mi sembra, altresi' detto, che questa idea di forma audiovideo che teorizzi sia una forma di espressione personale di uno stato individuale, circoscritto e concreto e che deve e puo' essere esibito anche ad altri individui circoscritti e concreti. C'e' una restrizione particolare anche nei riguardi del tipo di persone che possano fruire di questa forma di comunicazione: forse solo coloro che conoscono in qualche modo l'io che si rappresenta possono fare parte del tu che guarda. Non e' questa una forma di comunicazione elitaria che riporta a una forma di comunicazione inizio novecentesca tutta proiettata verso la rappresentazione del rappresentante e dei pochi che "capiscono"? Non c'e' spazio qui per il codice, per l'insieme di segni che parla a tutti e che e' la base dell'arte. O si? Nefeli
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06/04/01 11.46
Paolo D'Agostini ha scritto: > francamente non mi convinci > per carità, anche se sono abbastanza ignorante capisco di che cosa stai parlando > > ma mi sa tanto (troppo) di teoria > e tanto (troppo) di teoria autoriferita > allora, scusa, perché esistono ancora fenomeni (non vuoi chiamarli film?) come > il gladiatore > ma anche come l'ultimo bacio > a meno che non vuoi escludere tutto tranne quello che fai tu > ora, è vero che viviamo in una confusione-transizione (buona, cattiva, non lo > so) di "formati", e tutto è permesso > tutto, però: dal blockbuster al film (all'audiovideo) per un solo spettatore > e il tuo ragionamento invece mi sa troppo di "farsi tornare i conti per forza" > è solo una risposta volante > > cari saluti e grazie ad alexandra e a te e a vostra figlia per l'ospitalità > a presto > pd'a
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Da: Pasquale Misuraca
Data: venerdì 6 aprile 2001 17.15
A: Paolo D’Agostini
Oggetto: R: dicevo l’altra sera, stamattina scrivo
Caro Paolo, ti rispondo anch'io "volando", o per dirla con Ennio (Flaiano), "con i piedi saldamente piantati sulle nuvole". Ma non e' una risposta. E' la continuazione di un dialogo che spero si sviluppi e si arricchisca. In verita', Paolo, io non ho scritto "il cinema e' finito", ma "il cinema sta finendo". Sta finendo il cinema come forma teoricamente e praticamente dominante il campo audiovisivo (e sta nascendo una nuova forma, forse destinata a occupare il suo posto). Il cinema continuera' a esistere, ne sono sicuro. E si faranno altri e medi e ottimi e grandi film. Pero'. Pero' i film che citi come prova della vitalita' del cinema, "Il gladiatore" e "L'ultimo bacio" a me paiono una prova della sua perdita di centralita' creativa, una prova della sua mortalita' storica. Quando sono apparsi sulla Terra i primati, Paolo, non per questo sono scomparsi i mammiferi, gli uccelli e via enumerando; tuttavia sono stati i primati a dominare il futuro (fino a oggi almeno). E quando e' comparso lo Stato come forma storicamente superiore (cioe' teoricamente e praticamente superiore) di organizzazione delle societa' umane, non per questo sono scomparsi i comuni, le tribu' e via enumerando; tuttavia sono stati gli Stati a dominare il futuro (fino a oggi almeno). E quando e' comparso il cinema sonoro, il cinema muto non e' per questo scomparso... eccetera. Per cio', io non ho nessuna intenzione di escludere il cinema e i film dal campo audiovisivo, a favore dell'audiovideo e di cio' che vado immaginando e facendo. La pittura a olio ha escluso la pittura a tempera? E prima ancora, la pittura a tempera ha escluso il mosaico? L'automobile ha escluso il cavallo? E prima ancora, il cavallo ha escluso l'elefante? E il cubismo novecentesco ha escluso la prospettiva quattrocentesca? E prima ancora, la prospettiva individuale rinascimentale ha escluso le prospettive divine medievali? Il punto e' un altro, amico mio. Il punto e' (o almeno a me pare) che in un'epoca di transizione accelerata come la nostra, il relativismo assoluto e' una tentazione che non porta lontano, perche' non porta ad affrontare la radice dei problemi reali e attuali. Immaginare tutto equivalente a tutto e' prova di debolezza del pensiero, non di forza. Dobbiamo prendere posizione, Paolo, scegliere il futuro, cogliendo nella realta' i germi di cio' che in parte e' gia' futuro. Dobbiamo fare come Machiavelli, che ha superato teoricamente la teocrazia medievale con la sua teorizzazione dello Stato moderno (della quale operavano i primi esempi in Spagna, in Francia, in Inghilterra). Dobbiamo fare come Cèzanne nei confronti dell'impressionismo, come Caravaggio nei confronti del manierismo e via enumerando, fino ed oltre ad Einstein che ha superato teoricamente il determinismo ottocentesco con la relativita' novecentesca, la quale relativita', Paolo, non e' "assoluta" ma e' centrata su "un sistema di riferimento". Veniamo infine alla cosa, a "La Vigilia" e a tante altre opere che provano a costruire nuove forme di rappresentazione e comunicazione audiovisiva. Hanno diritto di esistenza? Chi ha il dovere di mostrarlo e dimostrarlo? Contengono queste opera una qualche novita' pratica da sviluppare criticamente e teoricamente? Chi lo fara', altri? E se non ora, quando? "E' da discutere - scriveva Max Weber - che ci si possa arrestare teoricamente di fronte a una qualsiasi evidenza di fatto, convenzionalmente stabilita, di certe prese di posizione pratiche per quanto diffuse esse siano. La funzione specifica della teoria mi sembra - aggiungeva il Nostro - proprio all'opposto, quella di trasformare in problema cio' che e' convenzionalmente evidente." Ti abbraccio. Abbracciami Cristina. A presto. Pasquale
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Da: Paolo D'Agostini
06/04/01 17.33
sono sopraffatto dai tuoi argomenti penserò (anche se, e avanzo solo un sospetto, mi pare che tu sottovaluti troppo quanto il cinema, e lasciamelo chiamare convenzionalmente così in mancanza di nomenclatura altrettanto espressiva, sia indissolubilmente fatto di miseria e nobiltà: tu vedi solo la seconda e ignori la prima e questo ti pone fuori dal mondo che nel cinema si riconosce. Pure Moretti, tanto schizzinoso, ne fa parte e persino Agosti, perché non fanno soltanto gli autori e meno che mai si limitano a teorizzare. Contano anche i soldi e, ciascuno sulla propria misura, conta la caccia al consenso. Perdona il disordine) devo ancora vedere i video a presto
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Da: Nefeli Misuraca
Data: sabato 7 aprile 2001 16.38
A: Pasquale Misuraca
Oggetto: Re: Vorrei che tu, Paolo ed io
“Quando sono apparsi sulla Terra i primati, Paolo, non per questo sono scomparsi i mammiferi, gli uccelli e via enumerando; tuttavia sono stati i primati a dominare il futuro (fino a oggi almeno). E quando e' comparso lo Stato come forma storicamente superiore (cioe' teoricamente e praticamente superiore) di organizzazione delle societa' umane, non per questo sono scomparsi i comuni, le tribu' e via enumerando; tuttavia sono stati gli Stati a dominare il futuro (fino a oggi almeno).” Caro papa', mi perplime un po' questa visione delle "umane sorti e progressive", che implica sempre alla base del suo ragionamento che vi sia una necessita' lineare nello sviluppo storico-sociale-artistico. A me sembra che questa teoria sottenda una concezione accumulatoria" del passare del tempo. Tu paragoni la formazione degli Stati all'apparire di una forma di vita: i primati. E cosi' come i primati hanno assunto una forma sempre piu' organizzata e tesa verso l'appropriazione esclusiva delle risorse, schiacciando le forme meno organizzate o meno esclusiviste di vita, cosi' anche gli Stati hanno monopolizzato i beni accentrandone l'organizzazione e la distribuzione. Questo, almeno, nelle nostre societa' nord-occidentali. Il sottinteso alla tua teoria, che "piu' avanti" nella catena di accumulazioni sia comunque "meglio" mi lascia un po' perplessa. Del resto, questo modo di leggere la storia, di ascendenza Hegeliana, come voi ben sapete, mi sembra che rientri nella categoria di quella societa' che tu definisci in via di estinzione, sorpassata: "sta finendo la forma storica di società che l'ha fatto nascere e vivere: la società dei partiti politici, dei sindacati operai e contadini, degli stati nazionali, degli uomini-massa" che Hegel stava vedendo nascere. Per non parlare delle implicazioni evoluzionistiche nel tuo approccio, anch'esse parte, e anzi, l'evoluzionismo e' forse la teorizzazione principe che ha esaminato e consacrato la vittoria della borghesia negli Stati nazionali europei post-rivoluzionari. Allora, mi chiedo: come e' possibile usare delle forme argomentative che appartengono a un mondo che si considera in via di estinzione o comunque di trasformazione quando si vuole teorizzare un mondo nuovo? Non bisogna usare anche una teorizzazione nuova? E ancora: l'ossimoro e' insito alla teoria stessa del progresso storico, poiche' essa sostiene che il mondo ha una struttura diversa da quella che si e' creduto fino ad ora abbia, ma per teorizzare cio' si deve, giocoforza, basarsi proprio sull'interpretazione della struttura che sta scomparendo. E, in fine, l'egocentrismo eurocentrico che e' il sostrato della teoria del progresso storico rischia di rendere tale teoria autolesionista, poiche', pur pretendendo di racchiudere in se' l'intero cosmo, non puo' far altro che estendere induttivamente le sintesi parziali derivanti dall'analisi di una parte sola del mondo al resto del creato. Mi sa tanto che si fa la fine del tacchino induttivista per questa via... Ti abbraccio, Nefeli
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Da: Serafino Murri
Data: domenica 8 aprile 2001 12.44
A: Pasquale Misuraca
Oggetto: AU – DIO vs. VID – E/O
Caro Pasquale,
se la discussione ferve, sai che io difficilmente mi tiro fuori dall'agone: accendo un sigarillo di sbieco, come il vecchio (si fa per dire) "homme révoltée" di Camus, e attacco.
Attacco nel senso più pieno del termine, citando Hakim Bey, uno dei guru dell'"immedatismo", corrente vandalica nata nell'ambiente dei "rave-parties" e diffusasi soprattutto via flyers (volantini) e via Internet: i veri antecedenti della tendenza all'abolizione del "circo", come tu lo chiami, a favore della partecipazione diretta ad un evento fatto per essere "partecipato", e non subito passivamente: nel caso specifico, si trattava di occupare zone abbandonate dalla civiltà dei Consumi e dei Rifiuti (padiglioni industriali, hangar, vecchi alberghi abbandonati) per trasformarli in Zone Temporaneamente Autonome, dove scatenare tutta la ludicità residua della generazione dei "bombardati" televisivi & informatici in danze scatenate al suono di musiche "campionate", rubate e ri-generate da maestri di cerimonie a metà tra il piratesco e il casereccio. Qualcosa nato a margine della "street art", ormai già diventata carne da macello in tutte le sue tendenze (dal Pop all''Hip-hop) delle multinazionali del Grande Circo.
Il signore in questione, dice:
"la mediazione ha luogo per gradi... La tendenza dell'Hi Tech & quella del Tardo Capitalismo, è di spingere ogni forma artistica verso una forma di mediazione sempre più estrema... La vera arte è gioco, & il gioco è una delle esperienze più immediate... nonostante tutto, allora, noi chiediamo un'estrema consapevolezza dell'immediatezza, cosi come la padronanza di alcuni mezzi diretti a implementare questa consapevolezza del gioco, immediatamente (seduta stante) e immediatamente (senza mediazione)... ma vogliamo praticare l'Immediatismo in segreto, per evitare qualsiasi grado di mediazione. Pubblicamente continueremo a lavorare nell'editoria, nelle radio, in campo musicale, ecc. ma privatamente creeremo qualcos'altro , qualcosa da condividere liberamente ma mai passivamente consumata: faccia a faccia & insieme... Tutti gli spettattori devono essere anche "performer"... Un'ovvia matrice dell'Immediatismo è la Festa... Il mostro chiamato LAVORO resta l'obiettivo esatto&preciso della nostra rabbia ribelle, la più grande di tutte le realtà oppressive che siamo obbligati ad affrontare. La seconda più grande minaccia può essere semplicemente descritta come il tragico successo del progetto in sé stesso... l'ultimo maggior mostro è che per riuscire in qualcosa bisogna prima di tutto "essere visti"... Questo implica controllo... perché il vero piacere in questa società è più pericoloso delle rapine in banca..."
Credo che ci sia un solo difetto nel ragionamento arguto che proponi nella tua "cartella" di dissenso: e lo riassumo nella mia sciarada-acrostico che dà il titolo alla presente risposta: la mancanza di contesto alternativo nel lavoro alternativo che pure tu fai. Au-Dio, cioè la tendenza sovrastante, ipostasi dell'inappellabilità di Dio (che la voce, il Verbo, il dire-per, implicano più della inevitabile individualità della visione), che rende lo spettatore la prossima preda ignara delle fiere che sta acclamando dalle gradinate del Circo con goduria mentre sbranano "gli altri", dev'essere sostituito da Vid e/o, lo stare insieme in alternativa la mercato delle idee, in grado di rendere miserrima attraverso l'inevitabile omologazione dell'espressione artistica nei gradi di "mediazione distributiva" del "prodotto" (e già questo è un epiteto da evitare come la peste, da lasciare al detersivo Ajax e alla Nutella) anche la più genuina e implacabile delle idee.
Dalla gabbia del contesto, non se ne esce se non ri-creando, all'infinito, contesti non ufficiali (an che enormi, grandi come un Circo), e non ufficializzabili, mai. Fare senza attendere il feed-back degli addetti ai lavori, e senza ambire all'Opera di mallarmiana memoria. Quel che deve restare, resterà: ma l'utopia di ritenere che agire fuori dai contesti e auto-prodursi possa poi dispensare il proprio parto dall'essere un prodotto utilizzabile da chi non solo non lo capisce, ma un po' lo disprezza e lo utilizza per tappare i buchi della produzione ufficiale di serie, dev'essere abbandonata. Il "di più" che viene dal maligno (meglio scriverlo con la minuscola, il meschinello) di cui parli tu, in questo caso è il Festival di Pesaro: un luogo sì alternativo, ma ufficiale. Esistono circuiti non ufficiali di diffusione delle opere, e gente come Alberto Grifi li bazzica da trent'anni. Credo che delle due cose, bisogna sceglierne una: il pugno di "tu" non può essere quello degli avventori casuali di un festival, che vanno lì a farsi le ossa a snasare o a prendere quel che passa il Konvento (per quanto fatto di umili fraticelli smagriti e non di Prelati corrottissimi e obesi): ma può essere solo al di là della mediazione di coloro che, per mandato di una Società di Mediatori, selezionano, dispongono, giudicano e "inseriscono", virgolettandola, ogni cosa nel loro programma.
L'audio/video non è questione di numero: non solo, come dici tu, abbisogna del monitor per rimarcare la differenza ontologica dall'Industria del cinema (o, ed è lo stesso, dei videoproiettori e dei fabbricanti di schermi e altoparlanti). Abbisogna di una selezione sostanziale all'origine, di un rifiuto della mediazione successiva, di autoincendiarsi prima che possa essere (e che lo sia o no deve diventare indifferente, come un graffito murale di Haring o Basquiat) eventualmente commercializzata e resa neutra l'opera, e trasformata in "prodotto".
Quando il prodotto arriva in mano a coloro che gli sono estranei, fruitori e acquirenti più o meno casuali, ed esce fuori dalla soglia di immediatezza dalla quale e per la quale è stato concepito, dev'essere già senza senso. Inutilizzabile: un totem come la colonna traiana, che certo era bella, ma che i romani che la ammiravano non avrebbero mai saputo decifrare. A meno di non diventare egizi.
Dunque: ben venga questo radicalismo, ma bisogna selezionare l'interlocutore. Altrimenti, basta la favoletta di Frate Ciccillo e Frate Ninetto del sor Pasola a spiegare tutto: evangelizzare gli uccellacci e gli uccellini si può, ma non evitare che gli uni mangino gli altri.
Con grande affetto,
tuo
Serafino (o Andy Warrior Jr.)
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Da: Federica De Paolis
Data: domenica 8 aprile 2001 21.42
A: Pasquale Misuraca
Oggetto: Quando la Montagna va a Maometto…
Caro Pasquale, ebbene si hai girato e montato il tuo film, esiguamente forse e seguendo le leggi delle emozioni e non quelle dia una sceneggiatura da circo multiplanetario, ma l'hai fatto. Il tuo piccolo circo, fatto di genuini mimi, ha il diritto di "circolare", di essere esibito al mondo. Io penso che "il mezzo" abbia la sua importanza, ma bisogna scegliere - il cammino- esibirlo significa farlo: schermo gigante, pellicola, video, ciò che tu preferisci, se scegli di andare a Pesaro, stai andando...e allora vai. Per vedere la Madonna del Parto del grande Piero, non c'era scelta ...si raggiungeva la cappella...ma poi Richard Long, che installava le sue magniloquenti opere nella strada della terra di Dio, è sceso a compromessi con la voglia di comunicare (non di prostituirsi, non di tradirsi) e ha portato la sua montagna da Maometto, è decollato al Palazzo delle Esposizioni, al Moma, ha ridotto la sua opera in scala, gli ha tolto il sapore dell'aria, è l'ha mostrata a milioni e milioni di assetati astanti. Io capisco tutto il discorso, ma la tua "vitale anima" che vuole abbandonare il mondo, è un attrice. Punto e basta. Non è arrivata la fine del circo...il tuo discorso è prematuro, certo lungimirante, ma non ancora pronto per cadere dall'albero, e rimanere al fresco dell'erba. Il circo esiste e non hai scelta: devi partecipare. Ti confesso Pasquale, che ti immagino viaggiare per le vie di Roma, e d'oltre Oceano, con la tua cassetta della Vigilia sottobraccio, mentre pensi e ripensi e con la tua immensa testa da intellettuale, rifletti sulle opinioni e sulle riflessioni, quando con quella tua dolcezza esprimi la tua dogmaticità, e alzi il calice alla vita, il giorno del tuo compleanno (la vita che ti ha tolto Eftimios)... e tutto questo mi emozione e ti penso come un Titano... e sono con te se scegli questa strada sono comunque con te se la gioia ti emoziona ti nutre e ti illumina Ti abbraccio Federica
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Da: Pasquale Misuraca
Data: lunedì 9 aprile 2001 8.51
A: Federica De Paolis
Oggetto: Quando la Montagna va a Maometto…
Cara Federica, la tua lettera mi ha fatto venire le lacrime agli occhi. E' diversa dalle lettere di Serafino, di Paolo, di Nefeli, di Gigi. Parla di Pasquale tutto intero, dalla testa immensa ai piedi ostinati, e la cassetta sottobraccio ("Con tu bolsón... siempre a la carrera..."). Considerare l'intero per la parte e non la parte per il tutto, discutere le idee senza perdere di mente e di vista l'uomo che le pensa e le porta, pensare le parole lungo le strade da dove sono arrivate a noi e lungo le quali ci lasceranno, muoversi col pensiero e commuoversi col corpo... Questo non è facile, amica mia, Dio sa quanto è difficile, eppure lo è per te. Anche partecipare non è facile, non è facile spostare la Montagna, pure dicono che sia possibile: lo dice Maometto, e prima Gesù, e dopo Federica: sento voci. Allora facciamo così: tu Federica-Maometto chiamami ed io Pasquale-Montagna ti porterò sottobraccio le cassette di "Vita e morte di", "Le ceneri di Pasolini", "Autoritratti vagabondi", "Amorosa Caterina", "La vita che desideri", "Prima di cominciare", "Santarielli d'Amantea" y, por supuesto, "La Vigilia". "Sono con te se se scegli questa strada, sono comunque con te se la gioia ti emoziona ti nutre e ti illumina". Hasta luego. Pasquale *
Da: Pasquale Misuraca
Data: lunedì 9 aprile 2001 19.54
A: Serafino Murri
Oggetto: R: AU – DIO vs. VID – E/O
Caro Serafino,
piacquemi la tua lettera. Risponderotti tosto.
Cominciamo dal principio: da Te e da Me discutenti dunque (vedremo poi perché, anche delle maiuscole), e dalle radici: dall'Uomo dunque: alle radici c'è l'Uomo, per dirla con Marx di Treviri e (vedremo poi perché, anche delle maiscole) Rossellini di Roma, e aggiungiamoci (vedremo poi perchè, anche delle maiscole) Protagora di Abdera, "L'uomo è la misura di tutte le cose."
Ma prima di cominciare, una parola nuda e cruda sull'"immediatismo". Alla faccia dell'immediatismo, Serafino amato amico mio! Per entrare in rapporto virtuale con te, se scelgo il telefono mi risponde invariabilmente una segreteria telefonica (mai che tu prenda la cornetta, cazzo!), e se scelgo invece il computer, rispondi solo penultimo e solo se provocato (mai che tu mi scriva / c...! di tua iniziativa)
E ancora prima di cominciare, due proposte di lavoro.
La prima la ripeto, la metto per iscritto e la preciso Domanda: vuoi completare con me la sceneggiatura per il film dal titolo (provvisorio) "Ho fatto un sogno"? Hai detto sì, lo so, lo so, e questo mi ha fatto felice, perchè mi piace molto stare con te e molto mi piacerà lavorare con te, e perchè ti ritengo un ottimo sceneggiatore in nuce, ma. Ma non ti sei impegnato nel tempo e nello spazio. Mi impegno io e senza mezzi termini (conosci la mia massima preferita? E' di Arnold Schoemberg: "Tutte le vie conducono a Roma, eccetto le vie di mezzo.") ti dico: nelle prossime settimane, a casa vostra, davanti al vostro computer, o a casa nostra, davanti al nostro computer.
La segunda es la que sigue: all'interno del prossimo lavoro che Alexandra e io abbiamo messo in cantiere, "Tamarreide. Ritratto di un tamarro da giovane", ad un certo punto assolve il sonoro di una canzone del Tony Tammaro (oggetto-soggetto del film-documentario-musical), dal titolo "Chat line", il visivo della quale dovrebbe essere costituito, assecondando un parto malizioso della mia fervida immaginazione, dal montaggio di una serie di minuti frammenti di genere erotico costituenti nel loro insieme l'immaginario dell'uomo-spettatore contemporaneo. Ebbene, ho immaginato che questi minuti frammenti (ah, Maestro Dreyer della Minuta Frammentazione) siano estratti dai film di tutti i tempi e di tutti i luoghi: bocche, braccia, corpi, seni, fianchi, fiancate, culi. Frammenti di film irriconoscibili in quanto opere, frammenti come ricordati, come assembati, spiritosamente, surrealmente. Ti piacerebbe lavorarci con me e con Mariuccio?
Ma veniamo alla Cosa, all'audiovideo e all'AU-DIO vs. VID E/O. Devo subito dirti che non conosco di prima mano tutti i personaggi e tutte le citazioni che tiri fuori dal pozzo patrizio della tua spaventosa erudizione. Per ciò ho seguito i tuoi ragionamenti fino a un certo punto. Ma vediamo insieme se quello che ho capito permette di sviluppare i nostri ragionamenti. Faccio come Coriolano: "Parlo io."
Prendiamo Michelangelo e Rodin. Ho visitato l'altro giorno la mostra "Rodin e l'Italia" a Villa Medici, con un amico scultore, Mimmo Pesce, e ti consiglio di visitarla, e lo consiglio a Federica: un paio di ritratti, un paio di bronzi e quasi tutte le sculture di marmo valgono abbondantemente il costo del biglietto. Dicevo Michelangelo e Rodin. Precisiamo, e prendiamo il "David" dell'italiano quattrocinquecentesco e la "Meditazione" del francese ottonovecentesco. Da un punto di vista tecnico e teorico non c'è novità sostanziale della "Meditazione" rispetto al "David". Certo, il "David" è integro, intero, e la "Meditazione" è mutilata, spezzata. Ma la sostanza è quella. Rodin varia Michelangelo adeguandolo al gusto moderno e alla mentalità contemporanea, ma il concetto e la forma della scultura monumentale non cambia radicalmente. E non parlo qui della diversa grandezza dei due diversi autori, del fatto che Rodin sia incomparabilmente minore di Michelangelo in quanto scultore. Non parlo da un punto di vista estetico, no, parlo da un punto di vista tecnico e teorico.
Prendiamo ora "Paisà" di Rossellini e "La Vigilia" di Misuraca. Devo aggiungere che non parlerò delle due diverse opere dei due diversi autori da un punto di vista estetico, ma semplicemente da un punto di vista tecnico e teorico? Dunque: "Paisà" suppone un testimone invisibile e la cinepresa, cioè qualcuno che non sia l'attore e qualcuno che manovri la cinepresa, cioè (tecnicamente e teoricamente) suppone l'autore e il circo. Ne "La Vigilia" l'autore e il circo (tecnicamente e teoricamente) non ci sono più, o meglio non c'è prova che ci siano. Non si sa. Lo spettatore non lo sa e non lo può sapere, resta incerto, fino alla fine della visione, e oltre, tornando a casa o andandosene a letto. Questa opera, "La Vigilia" è sostanzialmente diversa e radicalmente nuova rispetto a "Paisà". Ne convieni?
Il problema dunque per me non è "abolire il circo a favore della partecipazione diretta ad un evento fatto per essere 'partecipato', e non subito passivamente". Il circo, grande o piccolo che sia, resterà sempre, così come l'autore, grande o piccolo che sia, resterà sempre, e lo spettatore parteciperà sempre indirettamente e mai direttamente a un evento (certo, più o meno passivamente, ma sempre indirettamente: la "partecipazione diretta", in politica o in cinema non importa, è sempre un equivoco; lo spettatore è trascinato tra gli ingranaggi della macchina come lo spettatore prerosselliniano secondo Bazin, o partecipa attivamente alla costruzione dell'opera saltando sulle pietre del greto del torrente, come lo spettatore rosselliniano secondo Bazin, ma sempre spettatore resta e non può far altro, quando ha l'occhio il cuore il cervello il fegato capaci di tanto, non può fare altro che "godere della libertà dell'autore", per dirla con Pasolini).
Il problema per me, Serafino, è quello di costruire una nuova forma di realismo, più soggettiva, certo, dei realismi storicamente precedenti, ma. Ma qui dobbiamo intenderci di che soggettivismo parlo. Parlo di una forma nuova e superiore di soggettivismo (lo chiamo "realismo soggettivo") rispetto al soggettivismo assoluto e assolutamente comico dei tempi nostri. Ti faccio prima un esempio, poi torno a protagora di Abdera eppoi chiudo.
Devi sapere che parecchi anni fa, era il 1988 se ben ricordo, mi trovavo a Berlino, invitato a seguito di "Angelus Novus" da Ulrich Gregor nel quadro di una rassegna di cinema italiano sullo schermo grande del glorioso Arsenal. Insieme a me c'erano, fra altri, Fulvio Wetzl (con "Rorret") e Francesco Calogero (con "La gentilezza del tocco"). Sai com'è, una settimana a disposizione, incontri e feste, a un certo punto di un certo giorno, non ce l'ho fatta più a sentire le sproposizioni soggettivistiche assolute di Fulvio e Francesco, e precisamente quando entrambi hanno dichiarato in coro (curiosi questi soggettivisti assoluti: amano i cori) che non è possibile definire una determinata opera esteticamente superiore ad un'altra determinata opera, mettiamo il Partenone di Atene superiore esteticamente al Tempio A di Agrigento. Il Partenone, mi spiegavano i due buontemponi, è quello che il singolo uomo sente che sia, il singolo uomo nel senso di Fulvio Wetzl e nel senso di Francesco Calogero. Il Partenone di Atene più bello del Tempio A di Agrigento? E chi lo dice? Se io non lo dico, se io Fulvio non lo dico, il Partenone più bello non è.
In questi casi, io metto mano a Protagora di Abdera. Il quale appunto dice "L'uomo è misura di tutte le cose" intendendo "l'uomo e non Dio", e non io o tu con la minuscola, Fulvio Wetzl o Francesco Calogero, ma Io o Tu in quanto esseri umani capaci di critica estetica, e di capaci di stare in silenzio di fronte a una opera d'arte aspettando che quella "ci rivolga la parola".
Ora, Serafino, io non intendo fare opere alternative, ma opere native, non opere marginali, ma opere egemoniche, non opere dirette, ma indirette. Io non sogno l'assenza dell'autore, sogno un mondo di autori. Devo ripetere che non faccio qui questione della grandezza delle opere, le quali possono essere esteticamente grandi e (tecnicamente e teoricamente) conservatrici o esteticamente piccole e (tecnicamente e teoricamente) rivoluzionarie?
Tu scrivi:
"Dalla gabbia del contesto, non se ne esce se non ri-creando, all'infinito, contesti non ufficiali (anche enormi, grandi come un Circo), e non ufficializzabili, mai. Fare senza attendere il feed-back degli addetti ai lavori, e senza ambire all'Opera di mallarmiana memoria. Quel che deve restare, resterà: ma l'utopia di ritenere che agire fuori dai contesti e auto-prodursi possa poi dispensare il proprio parto dall'essere un prodotto utilizzabile da chi non solo non lo capisce, ma un po' lo disprezza e lo utilizza per tappare i buchi della produzione ufficiale di serie, dev'essere abbandonata. Il "di più" che viene dal maligno (meglio scriverlo con la minuscola, il meschinello) di cui parli tu, in questo caso è il Festival di Pesaro: un luogo sì alternativo, ma ufficiale.
Io replico:
Quando scrivo un libro a partire da Gramsci non lo scrivo per i marxisti, e quando scrivo un libro a partire da Gesù non lo scrivo per i cristiani, non voglio scrivere libri alternativi e non ufficiali, voglio scrivere per chi mi intende, dovunque e chiunque esso sia, voglio scrivere Libri e fare Film e Audiovideo, lavorare per il grande schermo e per il piccolo schermo, per i borghesi e i loro figli, per i sottoproletari e i loro figli. Di volta in volta riconoscendo criticamente e adottando conseguentemente tecniche e teorie, formati e collaboratori, pubblici e produttori.
Tu scrivi:
"Dunque: ben venga questo radicalismo, ma bisogna selezionare l'interlocutore."
Io replico:
Ma lo spettatore non è un verme tirato e spezzato ("sempre in due parti disuguali", direbbe Ennio Flaiano) da due tacchini. Gli amici bisogna selezionare, non gli spettatori. Considerati selezionato. Augh.
Pasquale Seduto
*
Da: Serafino Murri
Data: Martedì 10 aprile 2001 13.45
A: Pasquale Misuraca
Oggetto: La sostenibile ampiezza dell’umiltà partecipe
Caro Pasquale,
prima di replicare alla replica (come la discussione, per esser vera, pretende, nella sua funzione non di semplice esposizione narcissica ma di agone e (s)passionato confronto), ti dico:
la sceneggiatura.
Vediamo: tempielluoghi del fare dipendono da una miriade di fattori che debbono essere armonici allo sviluppo della nostra interiore affezione all'impresa. E poi, anche se non voglio parlare anche per la mia "complice" Federica (hai già sondato come e di che parla, e te ne sei commosso), ma il suo occhio e la sua capacità di sceneggiatrice in nuce (che con me co-insegna sceneggiatura) credo potrebbero aiutare in maniera sostanziale (tu e Alexandra mi capite, no?) l'affezione all'impresa, Mia, Tua, Nostra.
Quindi, rivediamo (la sceneggiatura, noi stessi medesimi) e complottiamo contro il Tiranno Kronos. Come diceva Don Klaudio Baglioni (sì, proprio lui, l'invecchiato idolo delle romantiche teenager romane): "io sono qui". E Federica pure (credo, parlatevi tra voi, che è bellissimo starvi ad ascoltare).
Poi però passiamo a quella cosa proteiforme, né bella né brutta, né giovane né vecchia che tu chiami, con una punta di passionato e coriolanesco ardore riduttivo "marginalità", contrapponendola all'opera "egemone" (per chi, davanti agli occhi di quale giudice D(=io)?). Mi sembra che la dicotomia proposta, benché efficace, sia un po' sghemba (come il verme di Flaiano), e che non ci sia una contrapposizione necessaria tra "marginale" inteso come qualcosa che non ambisce alla cretineria universale di quel soggettivismo tutto faccine sorridenti, ombretti e lucidalabbra che farcisce di nullesca virtù schermi, pagine e CD da consumo obbligatorio & quotidiano (come la carta igienica), ed "egemone" inteso come qualcosa la cui forza estetica non sia negabile dalle rassicuranti, proditorie sicumere di tuttologi scatenati alla difesa dell'indifendibile normalità (e del proprio salario di notorietà), poiché parla a chi ha orecchie per sentire, a chi ha occhi per vedere, e chi ha un corpo per farlo sobbalzare con la forza del sangue che scorre nelle emozioni. Il "mondo di autori" che tu dici di sognare è lo stesso che sogna chi si sforza di creare una élite (parola di PPP, che così marginalista poi non era) in virtù del fatto che gli umani (e senza questioni bibliche di Colpe con la maiuscola) si dividono, per vicissitudine e privilegio statistico, in coloro il cui cuore cerca i battiti e va in cerca di certe emozioni, e dunque "si mette in gioco", e coloro il cui cuore gode solo della coazione a ripetere, ragion per cui si fa trascinare sempre e per sempre su tutte le strade del mondo (festival, mostre, performances, etc.), ma alla ricerca di una rassicurante passività che confermi le capacità del pensiero senza metterle né in gioco, né in questione. E' la stessa differenza che gli psicologi fanno tra le "emozioni addomesticate" e quelle genuine, tra l'autoinduzione controllata di esperienze pseudo-liberatorie (dalla canna di marijuana alla partita allo stadio), e l'approccio senza filtri a ciò che dell'opera ci ri-guarda, guarda noi con uno sguardo che riconosciamo, e che ci emoziona proprio perché non è "il nostro", eppure è la verità "fuori di noi", l'esperienza del vero che passa attraverso i nervi e il sangue, e non solo attraverso la cosiddetta "mente" (curiosa la sua omonimia con la terza persona singolare del verbo mentire, vero?). So e vedo che tu cerchi la stessa cosa, ma la tua vocazione evangelica (quel "non parlo di Gramsci ai Marxisti, o peggio ancora ai Gramsciani, ma a coloro che non conoscono il Verbo"), a mio avviso, ti gioca degli scherzi da prete, piccole fate Morgane dove il tuo volto forte e austero si specchia su quello dell'interlocutore fino a prenderne il posto, senza considerare che lo spettatore non solo non è un verme, non è e basta. Lo spettatore lo determini tu, con quello che fai. Così, quando parlo di "selezionare l'interlocutore" non intendo certo che tu debba capire in anticipo quale sarà il pubblico che vedrà la tua opera, ma, se preferisci, di "selezionare i selezionatori" che hanno il potere di farla circolare. Quel che mi sembra ingenuo nel tuo discorso è l'esasperazione dell'idea di quel "braccio di ferro necessario" che il pragmatico Pasolini diceva di accettare, di volta in volta con i produttori, la cui unica alternativa era il suicidio intellettuale. E io dico col cazzo che è così, e proprio perché anch'io propendo tutto per la soggettività e la sua liberazione sempreché non diventi la cachetica legittimazione del farnetico pensare menefreghisticamente individuale alla Calogero o Weitzl, dico che esistono una marea di gradi e differenze di mediazione possibile (quello della segreteria telefonica è un filtro, non una mediazione, e dietro nasconde una persona fatta di volontà e di inconscio, e non un contabile delle relazioni umane): e certo il Festival di Pesaro, dietro al quale si celano i volti ben poco aperti e illuminati di uomini come Miccichè o Torri (lasciamo stare il volenteroso mediatore Spagnoletti), non è il luogo dove può avvenire un risveglio delle coscienze, ma semmai una loro rassicurante irregimentazione, certificata dal fatto che anche l'avanguardia o quel che si pone come "non-mediato" realismo è lì, disponibile come tutti gli altri sottogeneri dello spettacolo al loro fianco, e da essi, in assenza di specifica educazione, del tutto indistinguibile.
Non è lana caprina questa, caro Pasquale Seduto di Abdera, per me è linfa. Il Sessantotto con tutta la sua caterva di illusioni che noi figli dei figli scontiamo a suon di nuove e più solide gerontocrazie grottesche, nel suo liberalizzare gli accessi, si è dimenticato di liberalizzare gli strumenti, cosicché il figlio dell'operaio più debole e il cui spirito di emulazione del figlio del borghese non era così grande da farglielo imitare di sana pianta nei modi e nelle abitudini, pur se è arrivato a fare l'Università è stato cancellato dall'orizzonte della Storia e della Cultura e messo nel ghetto dei perdenti dalla nullificazione degli scampoli di cultura geroglifica a lui donati per meglio confondergli le idee. Questo è, in buona sostanza, per me il meccanismo: la solita sotria per cui le classi egemoni non si considerano classi, ma incarnazioni metonimiche dell'Umanità tutta. Come te lo spieghi tu che tutta l'arte non storicizzata che conta sta nelle case di emeriti aguzzini e bagarini del gusto che al momento opportuno investivano a pioggia su tutti gli artisti, per poi buttare via in un cesso, dopo la verifica critica, tutti i perdenti, e tenersi solo gli Schifano, i Festa, e via dicendo? Non basta dire (me lo diceva qualche sera fa con grande arguzia Federica) che questa qui ormai non è più arte nel senso che lo era per il tormentato Michelangelo e neanche per Poussin o David, e, a ben vedere, forse non è più nulla: bisogna aggiungere che lo Spirito non è di nessuno, cioè è di tutti, e dunque, la cosa più urgente da studiare è il modo di renderlo disponibile, e non di straforo e per caso, a chi ha gli strumenti, o rendere gli strumenti disponibili ha chi ha voglia e passione di capire.
Questo mi sembrava di intravedere nei tuoi tentativi audio-video, e per questo mi sembravano meritori. Il tuo "realismo soggettivo" fa ottimisticamente appello a una comunità (l'Uomo di Protagora) inesistente, giacché l'unica comunità storicamente tale è quella, "assolutamente comica", del soggettivismo assoluto che farcisce l'assoluto squallore del mercato delle idee, dell'industria culturale ormai ridotta a fabbrichetta culturaloide. Per questo ti dico che Paisà aveva nel suo circuito estetico qualcosa di diverso, che "La Vigilia" non ha: il senso imparlabile della tragedia ancora viva che aveva già dato gli strumenti di lettura ai suoi spettatori in nuce (quegli strumenti erano la paura, la povertà, la morte, lo squallore e tutte le altre esperienze che la guerra aveva regalato, e che Rossellini non ha fatto che accarezzare con tenerezza infinita da marpione qual'era). La Vigilia ha un tasso di coerenza estetica tutto suo, ma certo non lo porrei sotto l'egida del realismo (come non ci metterei "Prima di Cominciare"), ma dell'astrazione, dell'iperbole, della sospensione della verosimiglianza. Che Rossellini non voleva e non sapeva neppure come adottare. C'è molta "mente", nella corporeità impressionante della tua attrice. La finzione ce vi si respira non è certo quella di "The Blair Witch Project" (fare finta che sia vero), ma lo spiazzamento generato dalla serenità di una moritura(?) dà da pensare, assieme alla sua rabbia, e dal momento che diventa "opera" lascia intravedere al pari di Rossellini il Circo, benché ristretto. La "prova" è nel fatto che siamo liberi di credere quello che vogliamo. Che dietro non ci sono i milioni di morti, le stragi, il sangue. C'è un inno alla vita fatto da chi sta per morire. Ma non come Eftimios, suo malgrado e con forza, ma per dispetto e per debolezza. E forse, si tratta di una semplice boutade rivolta al padre: dunque, un circo privato, ma sempre un circo.
Infine, la libertà dell'autore, in questo dopostoria fatto di una tela indistinguibile di pseudo-libertà palliate dal possesso privato dei mezzi di comunicazione, internet, telecamere, e via dicendo (col permesso di trasmettere e il divieto di parlare, avrebbe detto il buon De André), non è più niente. E' un genere tra gli altri del supermercato.
Per questo credo che la partecipazione diretta non sia un equivoco, ma una realtà misconosciuta: ogni giorno prendiamo parte a quel che accade, siamo più o meno consapevoli complici di questo andazzo orrendo del mondo. Ma possiamo esserlo anche scegliendo, scegliendo di stare accanto alle cose mentre avvengono, mobilitandoci non solo come artisti, ma anche come danzatori, spettatori di cinema che fischiano o appaludono, e non prendono tutto con lo stronzo irenismo di chi sa, ascoltatori che si commuovono, impenitenti bambini, Sartre che rifiutano i Nobel: se l'emozione non ti sembra partecipazione, che cos'altro lo è? Ma l'emozione ha i suoi codici, e non è soggetta a fraintesi: o c'è o non c'è, e nessuna mediazione la può generare. L'universalità è il vero inganno, dunque, se la si misura col già stato, con la grandezza che, storicamente si è sancita come tale. Quando tu citi Protagora, citi solo una parte della verità: l'altra mi sembra di trovarla in Eraclito di Efeso, quando si occupava dell'Origine (del resto, sei tu che dici che vuoi un'opera "nativa"): "se tutte le cose che sono diventassero fumo, le narici le distinguerebbero", e soprattutto "se non speri l'Insperabile, non lo scoprirai, perché è chiuso alla ricerca e ad esso non conduce nessuna strada". Quanto al realismo, Schonberg per Schonberg, viene da dire: "io dipingo un quadro, non una sedia", (io giro un film, non un usicidio), e così l'oggetto non ha così tanta importanza rispetto al gesto, ed è il gesto che credo vada condiviso. Chi si commuove perché George Clooney, Tom Cruise o Monica Bellucci sono belli, di certo resta incatenato alle emozioni addomesticate ed educate a suon di pubblicità quotidiana. Svegliarsi alla bellezza è un'arte, la più grande di tutte: e io credo, in cuor mio, che lo spettatore che ci riesce, che si emoziona e con-prende, fa diventare parte di sé l'esperienza che è frutto del gesto artistico ancora non codificato (o fuori della sua codificazione), è autore quanto il pittore, il cineasta e il musicista. Tutto il resto fa parte del mistero dell'inquietudine e della sua sorella per bene, la buona volontà.
Col tempismo che desideravi,
a presto
Serafino
*
Da: Pasquale Misuraca
Data: mercoledì 11 aprile 2001 14.47
A: Serafino Murri
Oggetto: Hola y Chao
Eh sì, Serafino, la discussione vera pretende di essere continuata: alle repliche debbono seguire le controrepliche, agli argomenti i controargomenti. Aggiungerei che la discussione vera pretende anche qualcos’ altro, ancora più profondo e più pericoloso. Io, (e leggendoti vedo che anche tu) quando discuto, cerco di perseguire anche questo qualcos’altro: prima di tutto, chiarire a me stesso il fenomeno mettendolo in problema, a me stesso e contemporaneamente all’altro, tenendo conto di volta in volta della sua speciale persona, della sua identità e del suo movimento; in secondo luogo, ascoltare ciò che l’altro mi viene dicendo, intelligendolo, leggendo dentro le sue parole il suo cuore, leggendo dentro il suo passato il suo presente; e poi viene il bello: avanzare in territori nuovi in compagnia dell’altro, guidati dal risultato progressivo della discussione, la quale scuote entrambi dalle fondamenta e trasforma entrambi incessantemente, in modo che la bussola non sia la mediazione geometrica dei punti di vista di partenza ma la costruzione di un processo di vista odisseo. Anche la costruzione creativa di un’opera d’arte (di una sceneggiatura, in questo caso) mi affascina. Leggo che sei determinato a lavorare concretamente a “Ho fatto un sogno”. Che ne dici se iniziamo il lavoro di seguito alle feste pasquali? Facciamo Martedì 17 aprile dopo cena a casa vostra? Mi parli anche di Federica, vorresti coinvolgerla nel lavoro di scrittura del film. Io ne sarei felice. Ma sono in attesa. Di che cosa? Attendo che Federica, donna molto autonoma amico mio, legga la bozza attuale della sceneggiatura che vi ho spedito via email e mi dica se le piace l’idea generale, e se sì, a quel punto mi piacerebbe chiederle di mettere le mani e la testa in questa struttura che vuol essere un’altra struttura. Ed ora, Serafino, proviamoci a proseguire la discussione partendo dalla tua forte e chiara lettera. Penso intanto, per dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio, che bisogna costruire opere egemoni e non marginali, nel senso di opere che conquistino il centro del fenomeno audiovisivo mettendolo teoricamente in problema e creando praticamente opere che spingano ai margini le opere “trasparenti come frittatine” (uso la formula flaianea). Penso poi che dobbiamo riunire gli uomini divisi, mettendoli tutti in gioco. Quando gli evangelisti attribuiscono a Gesù la frase “Sono venuto a dividere il fratello dal fratello” so che lo confondono con il Maestro di Giustizia capo della Setta degli Esseni. Un “mondo di autori” domanda, secondo me, la riunificazione del fratello con il fratello e dell’uomo con se stesso, facendoli diventare ciò che sono: fratelli, uomini. E’ una vocazione evangelica, questa? Se intendi con questo dire che voglio immaginare “l’uomo reale” come “l’Uomo Ideale” e ridurre “lo spettatore reale” allo “Spettatore Ideale” che ho in testa, sono d’accordo: è una vocazione evangelica. Ma sei sicuro che sia la mia? Ma cos’è “l’uomo”, amico mio? E cosa può diventare, e come? Ora, Serafino, tu sai che su questo ho scritto nei mesi scorsi un libro e ho avanzato un ragionamento e una proposta. Non intendo qui riassumere quello e questa, e aspetto che tu legga e mi dica ciò che pensi a proposito. Ma devo anticipare che oggi, a mio modo di vedere, la tua ricognizione antropologica dell’uomo contemporaneo come processo catastrofico dei suoi atti contemporanei non mi convince. Penso che la tua ricognizione antropologica degli atti contemporanei degli uomini contemporanei sia filosoficamente catastrofica. (“Il tuo ‘realismo soggettivo’ fa ottimisticamente appello a una comunità (l'Uomo di Protagora) inesistente, giacché l'unica comunità storicamente tale è quella, ‘assolutamente comica’, del soggettivismo assoluto che farcisce l'assoluto squallore del mercato delle idee, dell'industria culturale ormai ridotta a fabbrichetta culturaloide.”) “Ogni filologia contiene una filosofia”, diceva il Prigioniero (le chiamano ancora “Lettere del carcere”, e sono invece “Lettere del Prigioniero”, non trovi?), e dunque la tua “filologia” la tua “filosofia”. Orbene, io credo che la mia filologia (ricognizione antropologica) dell’uomo contemporaneo sia feroce, crudele, spietata quanto e forse più della tua, ma che la mia filosofia non sia catastrofica. Qui mi pare che ci sia, qui e ora, una bella differenza (da discutere, naturalmente: non credo a una discussione in cui ad un certo punto si dica “beh, io sono fatto così, e non ci posso fare niente”). E veniamo alla questione lasciata aperta anche da Marx (“chi educherà gli educatori?”): come “selezionare i selezionatori”. Non mi convince il tuo rifiuto del Festival di Pesaro come luogo utile alla battaglia culturale che andiamo facendo, in quanto “luogo dove non può avvenire un risveglio delle coscienze, ma semmai una loro rassicurante irregimentazione, certificata dal fatto che anche l'avanguardia… è lì, disponibile come tutti gli altri sottogeneri dello spettacolo al loro fianco, e da essi, in assenza di specifica educazione, del tutto indistinguibile”. E non ci puoi e non ci devi venire, a Pesaro, a fare opera di “specifica educazione”? Tu scrivi: “Non basta dire (me lo diceva qualche sera fa con grande arguzia Federica) che questa ((arte degli Schifano, dei Festa, degli eccetera)) qui ormai non è più arte nel senso che lo era per il tormentato Michelangelo e neanche per Poussin o David, e, a ben vedere, forse non è più nulla: bisogna aggiungere che lo Spirito non è di nessuno, cioè è di tutti, e dunque, la cosa più urgente da studiare è il modo di renderlo disponibile, e non di straforo e per caso, a chi ha gli strumenti, o rendere gli strumenti disponibili ha chi ha voglia e passione di capire.” Io domando: E Pesaro non può diventare utile in questa santa prospettiva? Tu scrivi: “’Paisà’ aveva nel suo circuito estetico qualcosa di diverso, che ‘La Vigilia’ non ha: il senso imparlabile della tragedia ancora viva che aveva già dato gli strumenti di lettura ai suoi spettatori in nuce (quegli strumenti erano la paura, la povertà, la morte, lo squallore e tutte le altre esperienze che la guerra aveva regalato, e che Rossellini non ha fatto che accarezzare con tenerezza infinita da marpione quale era). ‘La Vigilia’ ha un tasso di coerenza estetica tutto suo, ma certo non lo porrei sotto l'egida del realismo (come non ci metterei ‘Prima di cominciare’), ma dell'astrazione, dell'iperbole, della sospensione della verosimiglianza. Che Rossellini non voleva e non sapeva neppure come adottare. C'è molta ‘mente’, nella corporeità impressionante della tua attrice. La finzione che vi si respira non è certo quella di ‘The Blair Witch Project’ (fare finta che sia vero), ma lo spiazzamento generato dalla serenità di una moritura (?) dà da pensare, assieme alla sua rabbia, e dal momento che diventa ‘opera’ lascia intravedere al pari di Rossellini il Circo, benché ristretto. La ‘prova’ è nel fatto che siamo liberi di credere quello che vogliamo. Che dietro non ci sono i milioni di morti, le stragi, il sangue. C'è un inno alla vita fatto da chi sta per morire. Ma non come Eftimios, suo malgrado e con forza, ma per dispetto e per debolezza. E forse, si tratta di una semplice boutade rivolta al padre: dunque, un circo privato, ma sempre un circo.” Io ascolto la recensione critica in silenzio. E concordo poi sulla eternità del Circo (e del circo). Ma non hai detto ancora una parola sulla Soggettiva Libera Indiretta e sulla Soggettiva Giustificata Diretta, Serafino. Tu scrivi; “Svegliarsi alla bellezza è un'arte, la più grande di tutte: e io credo, in cuor mio, che lo spettatore che ci riesce, che si emoziona e con-prende, fa diventare parte di sé l'esperienza che è frutto del gesto artistico ancora non codificato (o fuori della sua codificazione), è autore quanto il pittore, il cineasta e il musicista.” E io ti abbraccio. A presto. Pasquale
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